IL DENTE DEL GIUDIZIO – origine storica

10 Ottobre 2006
niamh gatta persiana tortie
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La denominazione “dente del giudizio” è, storicamente parlando, piuttosto recente. E’ il frutto di una sorta di metatesi, una trasposizione delle parole “giudizio del dente”, locuzione che rimandava ad un oscuro e risalente processo che, in un tempo e in un luogo imprecisato, vide quali parti in causa un uomo ed una fata.

In questa breve prosa narreremo, appunto, di quel processo.

C’era una volta, in un tempo lontano, un uomo, il quale, come tutti gli uomini di quel tempo, aveva solo 28 denti.

Ed il numero era del tutto idoneo a garantire la corretta masticazione dei cibi. Non ne occorrevano altri. Né quell’uomo aveva motivo di desiderarne in sovrannumero, chè i suoi erano perfettamente sani e funzionali.

Ma l’uomo era piuttosto avido, e fu proprio a cagione della sua avidità che si trovò coinvolto in un processo con la fata e…

Ma procediamo con ordine.

Dunque, l’uomo era avido e sospettoso.

Quella mattina aveva venduto quattro pecore al mercato, e ne aveva ricavate quattro monete d’oro. Ma la sera, non fidandosi a lasciare le monete sul tavolo, a disposizione di ladri e malintenzionati, e sembrandogli inopportuno nasconderle nella credenza, dove un topo scambiandole per buon formaggio avrebbe potuto portargliele via, ed infine volendo tenerle con sé tutta la notte, decise di porle in un sacchetto e di custodirle sotto il cuscino. Così fece, e si addormentò felice.

Ma quando la mattina seguente l’uomo, stirandosi pigramente, infilò la mano sotto il cuscino per sentire il rassicurante tintinnare dell’oro… amara sorpresa: il sacchetto era vuoto!

Lo aprì, lo rivoltò, lo stropicciò nelle mani, alzò il cuscino, e le coperte, e le lenzuola, si chinò a guardare sotto il letto, ma dell’oro non v’era traccia.

In compenso, e l’uomo se ne accorse quasi subito, nella sua bocca erano spuntati quattro denti in più: i denti del giudizio.

Allora tutto gli fu chiaro: era da lui passata, quella notte, la fatina dei denti, quello spiritello evanescente che qualora di notte trovi un dentino sotto il cuscino di un bimbo ha cura di cambiarlo con una moneta sonante. E’ del tutto evidente come la fata, avendo trovato in luogo del dente le quattro monete, avesse pensato di doverle cambiare con quattro grossi denti.

L’uomo era furibondo.

Andò di filato dalla buona fatina, la prese e la scrollò ben bene per farle intendere con quanto sentimento desiderasse la restituzione dell’oro.

La fatina, sicura d’aver agito correttamente, non volle sentire ragioni, ed è così che finirono in tribunale. Dove si iniziò quel processo che doveva passare alla storia come “giudizio del dente”.

L’uomo narrò i fatti ed eccepì la assoluta mancanza della volontà di effettuare un simile scambio, la qual cosa gli sembrava del resto del tutto evidente.

Ma l’avvocato della fata sostenne che, nel caso in esame, si era in presenza di un ‘negozio di attuazione’, vale a dire quel genere di negozio che si perfeziona pur in assenza di un atto diretto a far conoscere la volontà del contraente, essendo la manifestazione di volontà sostituita dal fatto stesso dell’attuazione dello scopo negoziale; che, in sostanza, il caso non era differente da quello dell’acquisto di una bibita operato introducendo la moneta in un distributore automatico: nel caso di specie in luogo del distributore automatico v’era un cuscino, ma la sostanza non mutava.

Il giudice sorrise alla bella fatina, ed accolse la tesi del negozio di attuazione.

L’uomo si tenne i suoi quattro denti in più, ed anche i suoi figli ebbero 32 denti, e così i nipoti, ed i pronipoti, e la discendenza tutta.

E così noi, che siamo i discendenti di quell’uomo avido ed imprevidente, dobbiamo sopportare questi denti inutili fino al giorno in cui decidiamo di farceli estrarre dal dentista.

Né possiamo sperare di ricavarne qualche moneta ponendoli sotto il cuscino, ché la specie delle fatine è da tempo ormai estinta.

L’unico cui i nostri denti giovano è il dentista, il quale non ha però bisogno di alcun cuscino per farli fruttare.