Maurizio Cherubini, il mio laboratorio è aperto a tutti

 

L’Atelier Cherubini per le riparazioni di strumenti a fiato si trova al numero 69 di via della Balduina, a Roma. Un portoncino verde, sembra l’Irlanda. Dentro tutto nuovo, vetrinetta, bancone, divano, e una scala che scende nel seminterrato, il cuore del laboratorio.

“Ho aperto questo posto circa un anno fa, quando il negozio Manna Music, dove ho lavorato per vent’anni come riparatore, ha chiuso definitivamente, il proprietario è andato in pensione”. Maurizio Cherubini, sassofonista e noto riparatore di sax della Capitale, mi accoglie con un buon caffè, e musica che diffonde dalle casse dello stereo. Sul lungo bancone di lavoro bene illuminato sono diversi i sassofoni in lavorazione. Ce n’è uno completamente smontato, giace sotto una luce intensa, circondato da strumenti di ogni foggia e dimensione, sembra un tavolo operatorio.

“Questo qui – mi mostra un sax tenore – non è stato suonato in maniera costante, dopo l’entusiasmo dei primi giorni è rimasto abbandonato a se stesso, e quindi era tutto alterato. Di mia iniziativa gli ho fatto anche il trattamento col vapore”.
Il trattamento col vapore.
Mi immagino tutti questi strumenti che fanno la fila fuori dal laboratorio, con l’asciugamano stretto in vita, pronti per fare la sauna e il bagno turco.

“Beh – sorride Maurizio – sicuramente è un trattamento rivitalizzante, un anti-age. Vedi, il cuscinetto ha la funzione di chiudere il foro, e deve poter cadere e chiudere bene con la sola forza di gravità, senza spingere, senza necessità di esercitare una pressione. Il movimento che fai quando suoni deve essere di agilità, non di forza. Ora, la composizione del cuscinetto è abbastanza elastica, ma c’è un suo elemento imprevedibile, che è il feltro. La forma che assume il cuscinetto dopo un primo passaggio termico può essere mantenuta o meno a seconda di come reagisce il feltro. Se l’esposizione al trattamento termico è stata efficiente, il feltro non si muove più. Ma noi questo non lo possiamo sapere a priori. Il trattamento col vapore ha lo scopo di stabilizzare il tutto, assicurando così definitivamente la corretta chiusura dei fori”.

 Mi mostra altri sassofoni. Mi fa provare un sax Mark VII, ma con la mano non arrivo a prendere tutti i tasti. Sono spostati, dico.
“Il Mark VII doveva essere l’evoluzione del Mark VI, e per certi versi suona meglio, ma non è stato da tutti apprezzato: per aumentare la superficie dei tasti li hanno anche distanziati, sicchè è diventato scomodo raggiungere, ad esempio, il tasto del sib, che sta in fondo. Chi era abituato al Mark VI si è trovato male. Chi invece ha avuto questo sax per molto tempo, tipo Sandro Deidda [noto sassofonista salernitano, n.d.r.], e si è adattato a quel modo di suonare, lo preferisce a qualunque altro sax. Perché il suono è bello quanto quello degli ultimi Mark VI, e in più il miglioramento del fusto ha ovviato ai problemi di intonazione”.

“Il Super Action 80 I serie e il Super Action 80 II serie, riproducono un canneggio tipico del Super Balance Action, il primo, e del Mark VI, il secondo. Un suono un po’ più scuro la prima serie e più chiaro la seconda serie. Ho fatto una scoperta interessante. Vedi questa protuberanza? Dove si incastra sempre il pannetto per la pulizia interna del sax? L’octave tube pipe. Sui primi Mark VI e sui Reference non c’è, è a filo, non sporge: hanno pensato che potesse innescare dei whistles, dei fischi, non gradevoli, produrre quell’effetto, più frequente nei clarinetti, quel trillo non voluto, perché si crea un ristagno di condensa e al passaggio dell’aria quando alzi la chiavetta fa l’effetto fischietto. In effetti crea una piccolissima turbolenza e qualche fastidio alle note della mano destra. A chi vuole io faccio una modifica e riporto l’octave tube pipe a filo, il che contribuisce a stabilizzare un po’ il suono. Inoltre, quando i suonatori sono pigri e lasciano sempre il sax sul supporto e non lo ripongono tutte le volte nella custodia dopo aver suonato, per un effetto misto di umidità ed elettrostatica, su questo piccolo foro è attratto il pulviscolo dell’aria, che si impasta e crea dei tappi simili ai nidi di vespa che si vedono in natura. Quando smonto i sax spesso trovo su questo foro delle concrezioni tipo nido di vespa che l’otturano, e che ogni volta devo rimuovere, perché anche se piccolo il foro aiuta molto nella produzione degli acuti”.

Ecco, ha descritto me e il mio sax in modo molto preciso: foro a tubetto presente, dove sistematicamente si incastra il pannetto della pulizia facendomi andare nel panico, suonatrice pigra che non ripone mai lo strumento nella custodia, probabile nido di vespa nel mio sax. Vergognandomi molto, decido seduta stante che non porterò mai il mio sax in revisione a Maurizio [mi sono fatta poi coraggio, invece, e me lo ha restituito riparato e revisionato, tutto nuovo e lucente, bellissimo. E nemmeno mi ha sgridata. Non troppo, almeno. n.d.r.]

“Questo sax era in condizioni pietose, e sta riprendendo vita. E’ destinato a fare un lavoro di un certo livello. E’ di un allievo del conservatorio di Santa Cecilia che si deve laureare fra un mese. Tutti i caminetti sono stati livellati – i caminetti, chiedo, sono i buchi? – i caminetti sono questi – e tocca con il dito uno dei fori che sono nel corpo del sax, quelli che suonando vengono chiusi dai tasti – Per caminetto noi intendiamo il foro, il foro che avviene per estrusione. La difficoltà nel costruire un sax è anche quella di trovare la perpendicolarità del foro su un tronco di cono. Quel soprano che stava qui la scorsa settimana per esempio, un Buescher del 1927, ecco quella è stata la prima realtà della serie true tone: avevano capito che il flusso dell’aria doveva avere una certa ragione geometrica tridimensionale e avevano realizzato i bordi dei caminetti ammorbiditi, non così taglienti, in modo che il flusso dell’aria in uscita non avesse turbolenze. Quando hai un bordo, l’aria incidendo su questo bordo crea una turbolenza. Una turbolenza che, per esempio, è la ragione di essere del flauto traverso. A seconda di come impatta sul bordo della boccola l’aria produce il suono, perché si frange in due parti, due rami. Una fuoriesce, la perdiamo, non diventa sonorità; l’altra proprio perché spezzata con questa violenza diventa un flusso turbolento interno allo strumento e produce suono. Questa è stata una delle prime scoperte che ha fatto l’uomo soffiando in un pezzo di canna, un osso, una conchiglia: ha prodotto un suono”.

“A questo sax è già stato fatto un trattamento a caldo, al quale va aggiunto poi il trattamento a vapore. Si sente subito ad orecchio quando i tasti non chiudono bene. Senti il suono? – apre e chiude i fori con i tasti – questo è il suono di quando non chiude bene, questo invece quando chiude bene”.
E’ vero, si sente a orecchio, il tasto che chiude male ha un suono vuoto, insipido.
“E perché non chiude bene? Qui c’è una saldatura, e chi ha fatto la saldatura evidentemente non è stato in grado di ridare una forma perfetta al caminetto. E questo è un grosso problema. Questi sono gli imprevisti che portano via tanto tempo. Però una volta sistemato il tutto, il sax torna ad avere un suono meraviglioso”.

 

 

“La scelta di fare questo mestiere non è stata immediata, è maturata molto lentamente. Suono da quando ero piccolo. Ho iniziato a tre anni con la batteria, suonavo e cantavo, una specie di fenomeno da circo. Ho proseguito col flauto dolce, mio nonno era un maestro flautista e sassofonista, mi insegnava lui, per me era un gioco. Sono passato al sax contralto, e poi al clarinetto, perché al conservatorio, dove studiavo, non esisteva la cattedra di sassofono. Sono tornato al sassofono quando anche al conservatorio hanno introdotto lo studio di questo strumento, relativamente moderno”.

“Contemporaneamente allo studio in conservatorio mi dilettavo suonando dal vivo con piccoli gruppi, anche se i maestri dell’epoca non volevano assolutamente che ci fosse questa promiscuità, erano molto severi al riguardo.
Ricordo che intorno ai 18 anni, era verso la fine del conservatorio, dovevo fare una serata, e nella stessa cittadina il mio maestro si esibiva in un concerto al quale ero stato invitato. Per fortuna i due eventi non erano contemporanei, per cui ho potuto assistere al concerto del maestro e poi sono scappato a suonare. Ma il suo hotel stava poco distante dallo spazio all’aperto dove dovevamo fare questa esibizione molto pop, ed ho passato tutto il tempo col terrore che mi vedesse, nascosto dietro una cassa acustica, che all’epoca erano enormi, e avevo detto a tutti non dite il mio nome!, non mi presentate!, se mi vede sono spacciato”.

“Dopo il diploma in conservatorio ho cominciato un’attività come tester, collaudatore di strumenti a fiato. Mi sembrava di essere troppo rompiscatole, trovavo sempre qualcosa che non andava. Forse so’ un po’ antipatico – ride – e invece il mio lavoro era molto apprezzato. Perché avevo una grande capacità, e una particolare sensibilità, che mi consentiva di scoprire anche difetti quasi impercettibili”.
“Quando ho cominciato a lavorare anche per Manna Music, negozio di strumenti musicali che faceva anche riparazioni, il titolare, vista la buona manualità che avevo e la bravura come collaudatore, mi suggerì di fare un corso di specializzazione di alto livello. Ma io ho fatto molta resistenza all’inizio, perché mi sembrava di squalificare la mia preparazione di musicista. Ho lasciato passare diversi anni prima di convincermi che le due cose potevano convivere, e che anche grandi musicisti erano passati attraverso lo studio della meccanica del sassofono. Quando finalmente mi sono deciso la lista di attesa per specializzarsi era salita a due anni, perché nel frattempo a livello mondiale c’era stato un aumento delle richieste. Arrivato il mio turno sono partito e sono stato in Francia diversi mesi, a Mantes- la-Ville, presso la Buffet & Crampon”, una delle più rinomate case di produzione di strumenti a fiato.

“Il primo impatto con il laboratorio nella fabbrica è stato devastante, perché parlavano solo francese, niente inglese, e sul banco di lavoro c’erano tutti questi utensili con nomi che io ignoravo completamente. Liège, il sughero, per esempio. Un delirio totale. Non ci capivo niente. Fortunatamente dopo pochissimo ho cominciato a capire e parlare la nuova lingua, anche se scriverla e leggerla continuava ad essere un problema”.

“E’ stata un’esperienza meravigliosa. Ho avuto la fortuna di conoscere i veri maestri, quelli di un tempo, quelli che alla produzione degli strumenti musicali hanno dedicato una vita. Ho ancora gli utensili che mi hanno regalato; Michel Viot, decano dell’atelier di riparazione, me ne ha lasciati alcuni, e mi ha anche insegnato a costruirli. Pensa che i grandi musicisti in visita, prima di andare nelle altre aree della fabbrica passano sempre a salutare e rendere omaggio ai riparatori, gli angeli custodi degli strumenti”.

“Alla Buffet & Crampon per poter accedere al settore delle riparazioni occorre avere una scheda magnetica, perché ci sono strumenti di un certo livello, e si fanno studi sperimentali per le nuove produzioni. E’ vero che si fanno riparazioni, è vero che si fanno gli atelier con gli stagisti, ma si fanno anche sperimentazioni. Noi per esempio lì avevamo fatto studi su materiali, tipo il goretex, che sarebbero stati poi utilizzati un paio di anni dopo. Facevamo la sostituzione dei tamponi proprio con questi cuscinetti in goretex, ma ancora stavamo cercando di capire come funzionava questo materiale. Si sperimentavano sugheri sintetici, diversi tipi di colle. In tutta la fabbrica l’atelier delle riparazioni è l’unico posto dove si entra con una chiave magnetica”.

“Mantes La Ville, sulla Senna, è un paesino a quaranta minuti di treno da Parigi, verso la Normandia. Oltre alla Buffet & Crampon c’è la sede della casa di produzione di sax più famosa nel mondo, la Selmer, dove in seguito sono stato diverse volte per stage e aggiornamenti. La Selmer e la Buffet sono situate nello stesso plesso, sono due fabbriche che sono divise solo da un muro. Il bar all’angolo, l’unico bar della zona, che fa anche da tavola calda per la pausa pranzo, per par condicio alle pareti ha un sassofono Selmer e uno Buffet, un clarinetto Selmer e uno Buffet. Tutto il paese vive intorno al lavoro di queste due fabbriche, sono coinvolte tutte le famiglie, e l’attività da operaio specializzato si tramanda di padre in figlio. Questa dedizione, questo costruire e riparare strumenti, diventa quasi una cosa personale, l’operaio non costruisce uno strumento, lo crea, c’è l’orgoglio di averlo reso perfetto per chi lo suonerà, l’aver realizzato una creatura, un figlio”.

“Questo spirito qui purtroppo si sta perdendo, non c’è più quel senso di appartenenza ad un gruppo, ad un’arte. E’ diventato un lavoro come un altro, l’operaio sta due, tre anni, e se trova un’offerta migliore, una condizione migliore, se ne va. Non ci dedica tutta la vita come è successo a questi grandi del passato. E’ un peccato perché tutto questo sentimento, e il know how, l’esperienza, si perde. E si perde l’etica alla base di questa attività: tutto questo lavoro che mi hai visto fare oggi, tirare su il caminetto prima di spianarlo, nelle altre fabbriche di prestigio adesso non lo farebbero. Lima tutto e via. Non sono più rispettosi degli strumenti, sono diventati dei killer, ed è un dispiacere. Perdono di vista il fatto che lo strumento musicale non è un oggetto come un altro, è un oggetto che suona! Ecco, i tecnici di oggi non suonano, hanno bisogno di qualcuno che provi lo strumento per loro. Il fatto di suonare invece è importante, cambia l’approccio del riparatore, provvede una maggiore attenzione e sensibilità”.

“Fatto il corso in Francia sono tornato in Italia, e ho collaborato per un ventennio con Manna Music. Lì è stata una grande palestra: spesso non c’era la possibilità di acquistare una strumentazione del tutto adeguata, per cui ho fatto dei miracoli con quello che avevo riportato dai miei viaggi, prima spesso in Francia, poi negli Stati Uniti e in Germania. Ho avuto la fortuna in questi anni di avere la fiducia di grossi professionisti, Rosario Giuliani, Maurizio Giammarco e molti altri. Ho avuto anche la fortuna di mettere le mani su strumenti di Roscoe Mitchell, Joseph Jarman dell’Art Ensemble of Chicago, musicisti che vengono dall’altra parte del mondo e hanno fatto la storia del jazz; Mel Collins, che ha suonato anche con i Dire Straits, con i King Krimson. Personaggi che mi hanno aperto a nuove prospettive, perché parte di un mondo in cui regna una particolare sensibilità: hanno determinate esigenze di suono e per soddisfare le loro richieste sono stato costretto a studiare ancora e migliorarmi”.

“Quando Manna ha chiuso ho voluto aprire questo spazio, che non costituisce per me un punto di arrivo, ma un rinnovato punto di partenza. Ho avviato collaborazioni con ditte che mi fanno fare da beta tester, sperimentare e monitorare materiali nuovi prima di andare sulla produzione commericiale, e si è allargato molto il panorama dei musicisti che ricorrono alle mie cure, e mi affidano i loro strumenti. Spesso l’idea di suono che un artista ha non corrisponde al suono dello strumento che possiede, e lavorando per migliorare la meccanica o la scelta dei materiali si può arrivare a personalizzare molto il suono. Più morbido, più dolce, scuro, chiaro, molto squillante, brillante, a ciascuno il suo”. “

Quando intervengo su uno strumento mostro e racconto sempre fase per fase tutto il lavoro che c’è dietro, perché dalla conoscenza viene fuori una consapevolezza diversa. Lo strumento diventa più tuo perché conosci quello che è stato fatto e come è stato realizzato, e non è solamente un bell’oggetto nel quale tutto funziona perfettamente perché hai aperto la custodia e te lo sei trovato già pronto da suonare. In realtà a me è stato insegnato che non è opportuno far vedere le lavorazioni e i materiali, che tutto deve restare segreto, che ci si deve proteggere dalla concorrenza. Ma è sbagliato. Sono convinto che l’esperienza, la capacità, la manualità, e la sensibilità nel trovare il massimo risultato, la massima performance di uno strumento, non la si può ‘rubare con gli occhi’. Io qui non ho segreti. Ogni tanto passa qualcuno, ci facciamo un caffè, un po’ di musica. Stiamo un po’ insieme e facciamo due chiacchiere mentre lavoro. E’ bello, mi piace che il mio laboratorio sia anche un punto di ritrovo. Il mio laboratorio è aperto a tutti”.

 
 

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