Incontro Alfio Moriconi: la vita è troppo lunga per…

Alfio in biciForte dei Marmi, fine estate.
Mi viene incontro in bicicletta, Alfio, sorride. Più tardi, quando per fare una foto gli chiedo di mostrarmi la sua, fra le bici parcheggiate nel giardino, ridendo risponde: “la mia? La mia è quella che resta quando tutti sono usciti”. “Tutti” sono la moglie, i figli, i nipotini, qualche ospite di passaggio: “gli amici, se sanno che sono qui, passano a trovarmi, si fermano a cena, mi portano del vino; c’è sempre un gran via vai di persone”.
La piccola Giada mi vede scattare foto al nonno. “Ma vanno sul giornale queste? Quindi nonno diventa famoso?”. Sorrido: è già famoso, nonno.

Alfio Moriconi, classe 1936, aria simpatica e sorriso schietto, è stato per gli ultimi 12 anni Vice Presidente del settore importazioni e vendite europee della Total Wine & More, la più grande compagnia americana privata per la vendita di vini e liquori, con ben 120 negozi in una ventina di Stati.

Ma come ci è arrivato alla Total Wine, Alfio, da Forte dei Marmi?

“Sono nato in questa casa. Erano solo due stanze allora, queste due stanze qui, che ora sono un ingresso e una camera da letto. Solo due stanze, neanche il bagno c’era. Il bagno era la campagna tutta intorno. Mi mancava il bagno? No, non sapevo neanche cosa fosse un bagno. Se una cosa non la conosci, come fa a mancarti?”.


Alfio in cucinaOra alle due stanze originarie se ne sono aggiunte altre, una graziosa villetta circondata da un giardino ben curato, con un profumatissimo fico che fa ombra al centro, e la splendida vista delle Alpi Apuane che sovrastano Forte dei Marmi. Da quando l’anno scorso è andato in pensione Alfio divide il suo tempo fra questa casa e quella di Washington DC, dove ha vissuto per più di quarant’anni.

“Della guerra mi ricordo tutto, come se fosse ieri. Le bombe, allora si vedevano mentre cadevano. Loro arrivavano di qua, tu andavi di là. Ma non sempre si faceva in tempo a scappare. La Strage di Sant’Anna, qui vicino, il 12 agosto 1944; e lo scontro fra Americani e Tedeschi [febbraio 1945, n.d.r.] avvenne proprio qui dietro, qui sul fiume Versilia. C’erano cadaveri ovunque, tutto era coperto di cadaveri.
Non facevamo la fame però, almeno quello. C’era la campagna che ci dava da mangiare, pesci in abbondanza, di fiume e di mare, avevamo le galline; e i funghi porcini, che oggi sono preziosi, se ne trovavano ovunque in grandissime quantità, come fossero patate.

A nove anni facevo la staffetta per la resistenza. Mi ficcavano un bigliettino nei pantaloncini, e via di corsa. Arrivavo dove dovevo, sfilavano il bigliettino, fatto. Poco più di un gioco, per me”.

“Ho fatto solo quattro anni di elementari, per via della guerra. E poi tre anni di avviamento commerciale, dopo. A dodici anni già lavoravo, dovevo portare i soldi a casa. Guadagnavo 250 lire al giorno lavorando per 10 ore in un bar dove la Coca Cola la vendevano a 100 lire la bottiglia. Quindi con due Coca Cola e mezzo potevano fare i nostri stipendi!
“A 14 anni ero già fuori casa, lavoravo a Pontremoli. E poi ho fatto la scuola alberghiera a Viareggio, per sei mesi. Ho imparato moltissimo in quella scuola, moltissimo. In realtà non avrei potuto frequentarla, perché non avevo il titolo di studio per iscrivermi. E’ stato un po’ un caso…”

Tutta la vita di Alfio Moriconi si snoda, a sentire lui, fra “casualità” varie. Che a ben vedere però non sono mai veramente tali: è stata piuttosto una straordinaria costante vitalità a condurlo negli anni fra viaggi, incontri, rapporti importanti; una inesauribile curiosità per la vita e le persone, guidato da un’unica priorità: seguire le proprie passioni.

“Quando avevo 15 o 16 anni, nel bar ristorante in cui lavoravo c’era un cliente fisso, che mi vedeva mentre apparecchiavo, sparecchiavo, servivo. Un giorno mi disse, tu devi andare alla scuola alberghiera. Io non sapevo di cosa stesse parlando, le scuole alberghiere non le avevo mai neanche sentite nominare. Quell’uomo era Danilo Pandolfi, direttore della scuola di Viareggio, presso l’Hotel Marchionni. Ma io a quella scuola non potevo iscrivermi, mi mancava il titolo di studio necessario. Allora Danilo Pandolfi mi disse di passare presso l’hotel un mercoledì, a mezzogiorno, non un minuto prima, non un minuto dopo, e di chiedere l’iscrizione. Mi sarei sentito rispondere che non era possibile, perché quel mercoledì a quell’ora il segretario era assente, che sarei dovuto ripassare il giorno seguente. Tu non te ne andare, temporeggia, mi disse, e a quel punto arrivo io. Così fu, andai, mi dissero di ritornare un altro giorno, e in quel momento nella hall dell’hotel apparve il sig. Pandolfi, che chiese cosa succedeva. Direttore, gli risposero c’è questo ragazzo che vuole iscriversi ma non può, ché il segretario è assente. Me ne occupo io, disse il direttore. E così fu che io mi ritrovai iscritto alla scuola alberghiera. Con Danilo Pandolfi poi siamo rimasti amici per tutta la vita, a lui devo tanto, quella scuola mi ha insegnato tutto”.

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“Il primo giorno di scuola mi misero a lavare i piatti, eravamo io e un altro ragazzo. Il pomeriggio venne il segretario e disse che il dott. Pandolfi voleva vederci. Vi rendete conto di che porcheria di lavoro avete fatto? disse Pandolfi, mi sembravate due ragazzi intelligenti, ma mi sono sbagliato. Adesso laverete solo piatti finché non imparate a farlo bene. Il giorno seguente ci mettemmo d’impegno, e stavolta facemmo un lavoro splendido. Di nuovo il direttore ci fece chiamare. Eravamo preoccupati, e adesso che ci dirà, a noi sembrava di aver lavorato bene. Bravi ragazzi, ci disse, allora non mi ero sbagliato su di voi, avete fatto un ottimo lavoro. E quello per me fu il secondo, e l’ultimo, giorno di lavoro come lavapiatti. Il secondo, e l’ultimo giorno”.

“Imparavo molto guardando, osservando gli altri. Vedevo che mentre io lavavo i piatti, e guadagnavo poco, chi conosceva un pochino le lingue passava a fare il cameriere, il Maitre d’Hotel, e guadagnava molto di più. Allora mi sono detto, è semplice, devo imparare le lingue! E sono andato all’estero. Sono andato a Parigi, ho cominciato da lavapiatti, poi appena ho imparato un po’ di francese, cameriere; poi sono andato in Inghilterra e ho fatto la stessa cosa, poi Berlino, Stoccarda. Se ora parlo molte lingue? Non ne parlo nessuna, ne massacro cinque! – ride, ridiamo – ma le lingue non le ho mai studiate, le ho imparate così, a orecchio”.

Sono stato disertore. Andai alla visita militare e fui dichiarato abile al servizio di leva. Dovevo presentarmi alla Capitaneria di porto di Livorno e restare per 28 mesi. Avevo un permesso di tre mesi per l’estero, ma quando è stato il momento di rientrare non sono più tornato. Non potevo permettermi di fare due anni e più di militare, dovevo lavorare. Intendiamoci, se l’Italia fosse stata invasa l’avrei fatto, ma così… mi sembrava tempo perso, ecco. E’ stato l’unico dispiacere che probabilmente ho dato a mia mamma, poverina, perché i carabinieri venivano a cercarmi a casa”.
“A Parigi mi avevano intercettato i carabinieri. Un giorno che fortunatamente non ero andato al lavoro, un collega mi disse: Alfio, la police oggi ti ha cercato. Ho capito subito, sono andato a casa, ho fatto due valige e ho preso di corsa il treno per Bruxelles”.
“In Belgio lavoravo all’hotel De Flandre a Namur e c’era Mario Chialamberto, il console italiano. Organizzava molti pranzi di lavoro all’albergo; l’ho servito una volta, mi sembra, e lui ha chiesto al padrone che lo servissi sempre io. Non eravamo proprio amici, ma aveva sempre una parola gentile per me, come stai Alfio, che notizie dall’Italia, cose così. Allora un giorno ho preso coraggio e gli ho chiesto se poteva ricevermi nel suo ufficio. Sì naturalmente, ha detto. Arrivo nell’ufficio, buongiorno dottore, guardi, sono un disertore. Madonna! Allora ho spiegato che ero nato in un angolo di paradiso, ma povero povero. Che non avevo potuto studiare, che fin da bambino avevo dovuto lavorare, gli ho raccontato del mio primo lavoro a 250 lire al giorno. Morale della favola, sono diventato ‘studente residente all’estero’. Avevo il diritto di passare tre mesi all’anno in Italia, o forse due, non mi ricordo più. Quando sono rientrato per la prima volta a Forte dei Marmi dovevo presentarmi nella caserma dei carabinieri per far mettere un timbro sul passaporto. Forte dei Marmi era un borgo a quell’epoca, ci si conosceva tutti. C’era un vecchio capitano dei carabinieri, avrà avuto… non so, era sempre lì, forse ci è nato lì dentro, non lo so. E mi conosceva, conosceva tutti della famiglia, e quando mi ha visto ha esclamato “Ma figliolo ma tu da dove esci? M’hai dato così tanti grattacapi!”.

“All’estero piano piano ho fatto sempre più carriera, fino ad essere direttore di un hotel. Avevo acquisito una grande esperienza, ed ero diventato bravo nel mio lavoro, ero molto ricercato. Ma non ho mai avuto l’obiettivo di diventare ricco e basta. Sì, volevo guadagnare bene, ma tenevo molto anche al mio tempo libero. E non volevo fermarmi in un posto solo”.
“C’era l’Auberge d’Alsace sulla Meuse, la Mosa, in Belgio; un albergo con una ventina di camere, la gente ci veniva da tutto il Belgio. Il proprietario aveva sui settant’anni, mi aveva preso a ben volere, mi voleva lasciare l’albergo. Gli avrei pagato un affitto finchè fosse stato in vita, alla sua morte l’albergo sarebbe divenuto mio. Rifiutai. Era in un posto bellissimo, ma io mica ci volevo restare tutta la vita sulla Mosa. Volevo viaggiare!

Facevo in modo di lavorare otto nove mesi l’anno, e due o tre mesi li tenevo per me, per dedicarmi a quella che stava diventando una piccola passione, il vino“.

“Mi piaceva il vino, e volevo conoscere tutto della sua produzione. Così le mie vacanze le passavo nelle aziende vinicole, pulivo le cantine, sistemavo le bottiglie, assistevo alla vendemmia, l’assemblage. Aiutavo e osservavo, e imparavo. Via via la mia posizione nel settore alberghiero e della ristorazione diventava sempre più solida, ed ero molto ricercato ovunque. A quel punto erano le aziende vinicole ad invitarmi, le più famose, e così ho avuto l’occasione di conoscere proprietari, enologi, capi delle cantine; e con loro perfezionare le mie conoscenze. Per cinque o sei anni ho fatto così, ed ho imparato tutto del vino. Era la mia passione”.

Alfio in spiaggia

“Avevo un piccolo sogno, tornare in Italia e aprire un relais di campagna. Le aziende in Toscana a quell’epoca, erano i primi anni ’60, le svendevano, la gente andava a vivere in città e voleva liberarsi delle proprietà di campagna. Si potevano fare prestiti vantaggiosissimi, era proprio il momento adatto per iniziare un’attività. Ma prima di mettermi in proprio volevo conoscere le realtà del settore turistico negli Stati Uniti. La maggior parte dei clienti negli alberghi in Europa venivano dall’America, erano loro i ricchi che potevano permettersi di viaggiare e spendere. Così volevo conoscere meglio questi clienti, per poterli meglio servire poi in Italia. Nel 1962, avevo 26 anni, presi un biglietto e andai negli Stati Uniti”.

“Mentre mi trovavo negli Stati Uniti un giorno sentii parlare di un wine tasting che si sarebbe tenuto nella città in cui vivevo. Non avevo idea di cosa fosse. Per me il vino era un cibo, un prodotto della tavola, come la frutta, il pane. Negli Stati Uniti invece è arrivata quella “fantasia” del vino”.

“Quando sono arrivato io s’è cominciato a parlare di wine tasting. E cosa sarebbe un wine tasting? S’è mai sentito di un assaggio di patate, o di pane? E allora mi sono incuriosito, e sono andato a vedere. E lì mi sono reso conto che tutta questa gente parlava di vino, ma io il vino lo conoscevo davvero, molto meglio di loro. E allora il dilemma: tornare in Italia per aprire un relais di campagna, come avevo stabilito, o restare negli Stati Uniti e seguire questa passione per il vino? Avevo già visto delle proprietà da acquistare, mi ero anche già informato sui prestiti dalle banche. Sembrava la scelta più sensata, la più sicura.

“E invece alla fine ho deciso di seguire la passione, di fare del mio hobby un lavoro. Tempo sei mesi avevo il mio primo lavoro nel campo del vino. Un lavoro fantastico, che non è mai finito”.

“Nel primo lavoro dovevo selezionare vini per un’azienda, la Calvert Liquor, che li vendeva al dettaglio. Dopo qualche anno ho avviato la mia attività, la Wines Limited LLC. Non ho mai voluto un’azienda troppo grande, non volevo che il lavoro occupasse tutto il mio tempo, eravamo solo due soci e cinque impiegati”.

“Quando la mia prima figlia aveva sei mesi la Seagrams – la numero uno nel mondo nel campo dei liquori, un gigante – mi voleva reclutare per fare il PR sui vini. Mi offrivano 100.000 dollari all’anno quando io ne guadagnavo 15.000, e accettai. Ma poi tornato a casa mi resi conto che per questo lavoro avrei dovuto viaggiare, stare lontano da mia figlia per quattro giorni la settimana. Guardo la casa, e vedo che sta in piedi. Debiti non ce ne sono. Apro il frigorifero, ed il cibo c’è. E allora ho rinunciato. Mi chiamò uno dei padroni, un Bronfman, per capire se facevo sul serio”.

“Era assurdo rifiutare un posto così. Gli dissi che sì, volevo stare con mia figlia, mi piaceva metterla a letto, cambiarle il pannolino“.

Ha anche tenuto corsi presso l’Università di George Washington?

“Insegnavo l’abbinamento fra vino e cibo. Ho anche insegnato la cucina veloce. Non è necessario trascorrere ore in cucina. C’è una via di mezzo fra la cucina classica e il junk food. Insegnavo quello, la via di mezzo. Si possono cucinare ottimi piatti in mezz’ora. Per esempio ieri, avevo un’ospite dalla Francia. Ho comprato i calamari già puliti, ho preso sale, prezzemolo, aglio, un pochino di olio, e nel giro di cinque-sei minuti il pranzo era pronto. Ottimo”.

“Una volta stavo tenendo una dimostrazione di cucina rapida al Mayflower Hotel e c’era Christine Lurtòn, la figlia di Andrè, un grosso produttore di vino. Facevo saltare in padella non mi ricordo più cosa, cipolla o sedano, mi ero distratto e stava bruciando! C’era lì accanto una bottiglia di vino Entre Deux Mers di questo Lurton, e ne ho preso un bicchiere e di corsa l’ho versato nella padella. E poi ho cucinato, mi sembra, pezzetti di pollo. La redattrice del Chicago Tribune ha trovato la pietanza molto buona, e mi ha chiesto come si chiamava. Il vigneto da cui si fa il vino che avevo usato per non far bruciare la cipolla, Chateau Bonnet, è nel villaggio di Grezillac. E allora dico, è poulet à la grezillacaise. E’ la ricetta della nonna di Christine Lurton”.

“Come se avessi detto pollo lucchese, per dire. La redattrice ha scritto quell’articolo, e per 25 milioni di copie per tutti gli Stati Uniti è venuto fuori scritto questo poulet grezillacaise!”

Ho letto che è anche stato cofondatore della più grande associazione vinicola in America, Les amis du vin.

“Quella fu un’idea geniale. A Fort Lauderdale c’èra una delle succursali del club, associata ad un negozio di vini. Ogni mese sceglievo un vino, e i soci avevano la possibilità di acquistare quel vino presso quel negozio a metà prezzo, o con uno sconto consistente. In più si organizzavano cene, incontri, assaggi di vini, viaggi in Europa. Funzionava meravigliosamente. Però io dovevo viaggiare molto, e quando nacque la mia bambina, Sabrina, io non volli più viaggiare tanto, volevo stare con lei, e allora vendetti tutto”.

“Quando ho compiuto 65 anni ho venduto l’azienda, i miei figli non erano interessati a continuare l’attività. Pensavo di godermi la pensione, ma subito mi è arrivata l’offerta di questo colosso, la Total Wine and More. Avevano sentito che ero libero e volevano che mi occupassi della selezione di vini francesi, spagnoli, italiani e portoghesi. Dovevo scegliere un certo numero di vini da proporre in vendita nei loro negozio sotto l’etichetta “Alfio Moriconi Selection”. Io avevo già moltissimi contatti e conoscenze, non dovevo fare un grande sforzo per fare questa selezione. Sapevo già dove andare, a chi rivolgermi.

“Dovevo solo viaggiare, incontrare gente, pranzare, bere vini, chiacchierare. Una vacanza! Ho accettato, e questo è stato il mio lavoro per altri 12 anni”.

“La Total Wine & More vende circa 8000 vini diversi. Quando avevo la mia piccola azienda vendevo 35.000 casse di vino all’anno. Più o meno quelle che la Total vende in un sabato”.

“per la Total Wine non mi occupavo dei grandi produttori nazionali. Nel vino ci sono gli Antinori, i Frescobaldi, i Banfi; sono giganti, che hanno proprietà, hanno etichette; comprano vini, anche. Hanno i loro importatori, e i loro distributori. Poi ci sono proprietari indipendenti, che decidono di non vendere il proprio vino ai grandi produttori. Creano una propria etichetta, ma il vino lo devono vendere. Allora o partono e girano il mondo cercando di vendere il proprio prodotto, o lo affidano a un tipo come me, che lo va a vendere. Io mi occupavo dei vini indipendenti, appunto. Ho anche acquistato vino dai grandi produttori. Con la Total per esempio abbiamo creato una nostra etichetta, “il tesoro della regina”. Funziona così: se tu grande produttore hai una barca di vino, possiamo metterci d’accordo, e tu prendi parte del tuo vino e lo imbottigli con la mia etichetta. Si può fare anche questo”.

Siamo abituati a fare l’equazione vino costoso uguale vino buono. Ma non è sempre vero. Ci sono vigneti non appartenenti ad aziende famose, per esempio, che sono accanto a quelli di aziende famose, e che producono la stessa qualità di vino. O ci sono vini dei quali paghi la scarsità. Il Pomerol, per esempio, il massimo di qualità che paghi è 50 euro, dopo paghi altro, la scarsità, appunto. Mi trovavo spesso in questa situazione, mi chiedevano un consiglio su un vino da regalare, magari una segretaria che voleva fare un regalo al suo capo. Io nominavo un vino che fosse buono e che non costasse molto. No, mi dicevano, ne voglio uno migliore. Insistevo, questo è ottimo. No, migliore. Allora capivo che “migliore” voleva in realtà dire “più caro”. Alla fine mi arrendevo, chiedevo: quanto vuoi spendere. E consigliavo la stessa qualità di vino, ma una bottiglia più cara. Ci provavo ad essere umano, ma non funzionava mai”.

I figli sono cresciuti negli Stati Uniti, ma la prima figlia, Sabrina, ha scelto di andare a vivere in Europa.

“Aveva finito l’università, a New York, e aveva anche trovato un ottimo lavoro negli Stati Uniti, ma dopo sei mesi mi ha chiamato un giorno, e mi ha detto: Babbo, io preferisco stare in Europa. Mi dispiaceva, ovviamente, averla lontana, ma le ho detto per carità, la vita è troppo lunga per fare una cosa che non piace!”

Proprio così.
Siamo abituati a sentire la frase dalla prospettiva opposta: “la vita è troppo breve per”. Troppo breve per non fare ciò che piace. E per quanto la frase esorti a godersela, questa vita breve, sotto sotto suggerisce l’idea invece che sia un po’ cicala chi davvero se la gode. E che sia brava la formica, responsabilmente incline al sacrificio, a sopportare le dovute sofferenze: un dolore tutto sommato di piccola durata, nel breve tempo dell’esistenza.
E invece no, dice Alfio, la vita è lunga. Troppo lunga per non vivere come vogliamo. E penso che se tutti la visualizzassimo in questi termini, se pensassimo a quanto pesante possa essere una intera vita condotta controvoglia, forse saremmo più solleciti a rifiutare ciò che non va bene per noi, a interrompere relazioni sbagliate, lasciare lavori inadatti. E penso che la genialità di un uomo si vede anche in questo, nella capacità di ribaltare prospettive e restituire senso alle cose.


Alfio con bottiglia vinoHa tre nipotini Alfio. A ciascuno di loro ha regalato 35 casse di vino in magnum col loro nome scritto sopra: Cuvée Marco, Cuvée Melanie, Cuvée Giada. Con l’autorizzazione per i genitori a berli, e la preghiera di conservarne cinque casse per quando i ragazzi avranno 21 anni. Di casse però ne ha ordinate il doppio, e 35 le conserva nella propria cantina.
Al momento di salutarci prende una di queste bottiglie, una magnum di Bordeaux Chateaux Bois Redon, per regalarmela. Un regalo preziosissimo, il vino della piccola Melanie.

Cosa direbbe a un giovane che cerca la sua strada nella vita?
“Non trovare scuse, non dire non lo posso fare. Trova sempre la soluzione. Se devi fare tre o quattro cose, e ce n’è una che non ti piace, falla per prima. Così, libero. Se non ti piace il lavoro che stai facendo, lascialo subito. Trovane un altro. Ora, ci sono casi dove non è possibile, ma ci sono tantissimi casi dove invece davvero è possibile! Se hai una famiglia e delle responsabilità, cambiare non è facile, certo. Ma se sei libero, allora puoi! Vai a fare il lavapiatti, pulisci scarpe, vai a scuola, riciclati, cambia! Io non mi sono fermato finché non ho trovato quello che volevo. Certamente sarebbe stato bello avere l’albergo in riva alla Mosa, ma cosa mi sarebbe costato? Ero libero come un uccello, felice come una pacchia, fiducioso che sarei riuscito a guadagnare la mia vita, e allora chi me lo faceva fare? Per avere di più? E che ci faccio dopo? Mica sono un imperatore cinese che poi la ricchezza me la porto sotto la tomba con me. Guadagnare bene certo, era importante, ma più importante era avere spazio, tempo libero”.

Progetti futuri?
“Mi godo la pensione. Ho già avuto un paio di offerte di lavoro, ma non penso di accettare. Chi può dirlo, se mi mancherà il vino forse sì, ma al momento direi di no, ci sono tante altre cose che mi piace fare. Ho tre nipotini, mi piace viaggiare, il giardinaggio, la bicicletta, andare ai musei, a teatro. Mi piace anche tanto camminare, ogni tanto prendo e lungomare arrivo a Viareggio, sono 9 chilometri. Mi fermo, pranzo in un ristorantino, poi lentamente torno a casa. Il vino… il vino continuerò a berlo”.

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