Federico Poole, un egittologo a Torino

E’ un piovoso sabato di maggio, gli uffici sono chiusi. Il museo invece è gremito.
Federico Poole, curatore del Museo Egizio, viene a prendermi davanti all’entrata principale del museo e mi conduce all’interno delle sale, c’è qualcosa che vuole farmi vedere prima di cominciare la nostra chiacchierata.

asinoCi fermiamo davanti ad un pannello.
“Qui hai una fila di asinai, che stanno portando del grano, e l’asino porta questa cesta. Cosa vedi? Sembrerebbe una cesta a forma di clessidra, ma non è quello che è raffigurato. Sono due ceste. L’altra cesta, quella che sta sopra, in realtà è dall’altra parte dell’asino. Per l’egiziano è assolutamente normale ribaltarla sul piano verticale, perché deve mostrarla, deve raccontare tutto quello che c’è, anche se nella realtà non sarebbe visibile all’osservatore. Lo storico dell’arte Ernst Gombrich ha detto: ‘gli egizi avevano in gran parte disegnato ciò che sapevano, i greci ciò che vedevano…’; è un po’ il principio del manuale IKEA, con i disegni di tutte le parti scomposte del mobile. L’arte egizia può arrivare a livelli artistici molto elevati, però ragiona sempre così, per scomposizione. Il contenuto di una scatola viene dipinto fuori della scatola, o sopra di essa, perché chi guarda possa vedere anche quello che, benché celato, tuttavia esiste”.

“L’arte egiziana mi emoziona molto, la percepisco, tocca delle corde profonde in me.
C’è una sorta di pregiudizio eurocentrico che porta a vedere l’arte egiziana come un qualcosa che precede l’arte greca e in qualche modo prelude ad essa; l’arte greca come uno stadio successivo e più completo, come un’evoluzione. Ma questa visione è errata. L’arte egizia è a sé, parte da presupposti e ha scopi differenti. Non è un’arte narrativa, come la greca. L’artista greco tende a calare nel tempo il suo soggetto, a cogliere un istante, e un punto di osservazione. Scompone il tempo nei suoi istanti e racconta quello che vede in uno di essi, selezionato come particolarmente significativo. L’arte egiziana invece, essendo un’arte rituale, ha l’esigenza di sganciarsi dal tempo”.

“Il mio professore, Claudio Barocas, faceva questo esempio molto carino: diceva che per avvicinarci al concetto che c’è dietro a un “ritratto” egiziano – che poi ritratti non sono perché i tratti del viso non corrispondono più di tanto o affatto a quelli del soggetto raffigurato – ecco, per avvicinarsi basta pensare alla foto della carta di identità: è una foto che deve astrarre dall’istante, perché deve durare dieci anni, e deve porsi fuori dal flusso del tempo. Deve mostrare un’identità, un’essenza, a prescindere dal momento in cui è stata scattata. Questa atemporalità è ciò che più di ogni altra cosa definisce l’arte egiziana”.

f.poole pannello1“Il lavoro nel museo presenta una sfida ulteriore rispetto al comprendere l’arte egiziana: abbiamo il compito di divulgare la nostra conoscenza. E dal momento che la visita al museo sovente più che un’attività di studio è uno ‘svago colto’, la comunicazione museale deve sforzarsi di essere immediata e facilmente comprensibile”.

“Il vecchio Museo Egizio era molto diverso, con le vetrine dei primi del Novecento, e un apparato didascalico che andava rinnovato e aggiornato. Oggi il Museo è gestito da una fondazione semi-privata. Questo comporta una libertà nella scelta del personale che ci consente di avere una squadra di lavoro appassionata e coesa, e quindi più efficiente. Il Museo si mantiene da sé, produce molti introiti che vengono tutti reinvestiti nel personale, nei restauri e nella ricerca, perché siamo un ente senza fine di lucro”.

“C’è stato un grosso finanziamento iniziale di molti milioni di euro che ha permesso nel 2015 il rinnovamento dell’intero stabile, e tutta la collezione è stata completamente riallestita. Abbiamo raddoppiato lo spazio espositivo e diminuito il numero di oggetti esposti: abbiamo alleggerito l’allestimento a favore della leggibilità”.

corridoio museo egizioLa sala in cui siamo si snoda come un lungo corridoio. “Questa è la mia sezione preferita del museo. L’allestimento non è mio, io ho curato un’altra sala. Un nostro bravissimo collega ha fatto un modello per ricostruire la posizione esatta di tutte le pitture, e con l’aiuto degli architetti siamo riusciti a ricavare in questo spazio la riproduzione dell’interno di una cappella funeraria”.

“Per consentire ai visitatori di muoversi agevolmente abbiamo allargato un po’ il corridoio. Sui pilastri a sinistra abbiamo riposizionato le pitture esattamente dove erano originariamente. Di fronte, dove si aprivano undici camere, abbiamo ricreato la camera centrale, e tutte le pitture che inframezzavano le stanze le abbiamo messe in sequenza fuori. La camera funeraria era molto più piccola, l’abbiamo allargata per agevolarne la visita. Gli architetti hanno fatto un miracolo riuscendo a ricreare l’ambiente in uno spazio che non era studiato per questo”.

Salendo negli uffici incontriamo il direttore del Museo Christian Greco, “ecco, vedi, anche il direttore non riesce a stare lontano dal museo, neanche di sabato!”.

f.Poole e C.Greco

finestra tetti

 

Lo studio ha più scrivanie, è normalmente usato da più egittologi, ed è affollato di carte, computer, libri antichi. Le finestre offrono un pittoresca vista sui tetti di Torino.

 

 

Quando ti è venuta questa passione per l’Egitto?

“Tardivamente, nel senso che non mi è venuta da bambino. Da bambino volevo fare l’etologo, il naturalista, mi interessava il comportamento animale. Mi iscrissi a scienze naturali, infatti, però poi non era quello che mi aspettavo, l’impostazione era aridamente scientifica e non c’era tutta questa idea degli animali come me l’ero immaginata io. Mi aspettavo qualcosa più alla ufficioKonrad Lorenz, e non era così. Comunque avevo le idee molto poco chiare, come spesso capita quando si finisce il liceo.
All’Università mi trovai in modo casuale, spinto dalla curiosità, a frequentare le lezioni di egittologia di Claudio Barocas. Facevo un’ora di geroglifico e un’ora di storia dell’Egitto, e quello che mi conquistò all’epoca furono essenzialmente due aspetti. Il primo, la scrittura geroglifica. Le lingue mi sono sempre piaciute, e l’idea di poter leggere questa scrittura non alfabetica mi appassionò subito, e mi appassiona tutt’ora. L’altro aspetto, forse ancora più importante, fu il taglio sociologico, o forse è meglio dire antropologico, che Barocas dava alla disciplina. Queste sono state le due prime motivazioni, l’approccio socio-antropologico alle grandi civiltà antiche e il piacere di starsene a leggere e tradurre un testo egiziano.
Solo più tardi ho scoperto anche l’archeologia da campo, e il coinvolgimento profondo che si ha a lavorare sul terreno, oppure in museo con gli oggetti”.

Quando ti sei reso conto che questo era il tuo interesse hai cambiato facoltà?

“Sì, subito. In realtà da scienze naturali ero già passato all’Orientale dove, girando da un corso all’altro prima di formalizzare l’iscrizione, cinese e giapponese prima, arabo e turco poi, alla fine sono approdato all’Egitto e all’archeologia, e lì sono rimasto”.

“Prima di laurearmi superai un concorso per un posto di assistente archeologo in un grosso progetto, ce n’erano vari contemporaneamente, qualcosa chiamato “giacimenti culturali”, e io in particolare lavoravo a Pozzuoli, archeologia romana, presso il consorzio Pinacos. Tempo pieno, contratto da metalmeccanico, stipendio, che era una cosa piuttosto bella per un ventenne.
Cominciai a lavorare lì, ritardando alquanto la laurea, e mi appassionai molto anche a questo aspetto dello studio. Scoprii l’archeologia da campo, la stratigrafia (la tecnica sviluppata dall’archeologia moderna per distinguere nel terreno di scavo la successione di strati determinata dagli interventi umani e dagli eventi naturali, n.d.r.) e il matrix, che è un sistema per mettere in sequenza le ”unità stratigrafiche”.
Lì mi sono trovato a dare un senso ulteriore al mio studio delle civiltà antiche. Ho scoperto il terreno, lo scavo, e l’archeologia come conoscenza di processi collocati nello spazio e nel tempo. Poter ricostruire attraverso l’osservazione la storia di un oggetto nel tempo… ecco, l’archeologia mi ha insegnato a guardare. Per me che sono una persona molto distratta, e tendo ad essere preso più da ragionamenti astratti, è stato un bel cimento dovermi prendere del tempo per osservare, fermarmi a leggere quello che avevo davanti senza darlo per scontato”.

“Negli stessi anni ho lavorato anche per il Museo Nazionale di Napoli. Anche questa è stata un’esperienza importante, occorreva dare un allestimento scientifico alla collezione egiziana che era stata a lungo non esposta. Il gruppo di lavoro era a dominanza femminile, cinque donne ed io, tanto che Il mio permesso di ingresso era per la ‘dottoressa Federico Poole’. Eravamo tutti studenti, abbiamo lavorato con regolare contratto e tanta inesperienza, senza computer, all’epoca ancora non erano diffusi i personal computer, quindi tutti questi numeri, questi quadernoni, questo lavoro… che io non credo di aver fatto benissimo, penso di essere stato un po’ sciatto. Per fortuna c’erano le mie colleghe più esperte. Lì ho imparato tanto perché avevamo gli oggetti in mano, una collezione di un migliaio e passa di reperti, tanti piccoli amuleti, ma anche oggetti di una certa importanza, che potevamo prendere in mano, portarceli a tavola, e spupazzarceli” – usa proprio questa espressione, Federico, “spupazzare”, che è bellissima, dà l’idea di avere a che fare con creature vive, e infatti continua: “c’è un’emozione particolare nel toccare un oggetto antico, che io sentivo molto fortemente. Oggi mi fa un po’ meno effetto, perché l’ho fatto tante volte, ma è sempre emozionante. Questo contatto materiale è uno stimolo emotivo ancora prima che intellettuale. Poi diventa anche intellettuale, perché sul reperto occorre ragionare, leggere l’iscrizione, e se ci sono i geroglifici io sono più contento. Gli egiziani scrivevano un po’ dappertutto, e la prima cosa che faccio io è guardare i geroglifici, che non è una buona cosa, si dovrebbe prima guardare l’oggetto nel suo complesso, invece io subito mi piazzo lì per vedere magari il nome del proprietario e cosa c’è scritto sopra. Non ne posso proprio fare a meno. Ma in ogni caso il contatto manuale con l’oggetto evoca questa grande emozione. Io credo molto nelle handling sessions che si fanno nei musei, sessioni riservate in cui alcune persone possono toccare i reperti, l’ho visto fare ad esempio nelle sale del museo di Manchester. Reperti non fragili, naturalmente – lì a Manchester erano degli utensili preistorici, delle grosse selci – che vengono messi a disposizione del pubblico per essere maneggiati… potere toccare un oggetto è un modo di fartene innamorare, è un privilegio. Io così lo vivo”.

 

fotocopie geroglifici

 

Quando leggi un’iscrizione c’è anche una pronuncia condivisa?

“Oggi in Egitto si parla arabo. L’egiziano come lingua parlata non esiste più, è una lingua morta. Non sappiamo esattamente quando, ma sappiamo che ha cominciato a declinare nel medioevo, facendo gradualmente posto all’arabo. L’ultima forma dell’egiziano parlato è il copto, che si scriveva usando l’alfabeto greco, con in aggiunta alcuni segni presi da una versione corsiva della scrittura geroglifica chiamata ‘demotico’. Quei segni erano necessari per rendere suoni dell’egiziano che in greco non esistevano. Con sei o sette segni presi dal demotico e il resto dall’alfabeto greco gli egiziani scrivevano quindi la loro lingua, e la scrivevano principalmente per tradurre i Vangeli, per scrivere vite di santi, e tutto ciò che ineriva alla vita religiosa. Questa scrittura resta in uso alla liturgia cristiana d’Egitto, dove ancora oggi il 10% della popolazione è cristiano. La comunità cristiana ha conservato questa scrittura. Anche gli studiosi cristiani di lingua araba, visto che si stava perdendo la conoscenza del copto, si preoccuparono di scrivere vocabolari e grammatiche, parlo di secoli e secoli fa. E nel ‘600, quando i viaggiatori occidentali che vanno in Egitto riportano indietro vocabolari e grammatiche copte, testi copti, i dotti occidentali cominciano a studiare per recuperare l’antica lingua egiziana in base a questi testi. Naturalmente non si poteva essere sicuri che fosse anche l’antica lingua dei geroglifici, però era ragionevole supporlo”.

“All’inizio i tentativi di interpretare il geroglifico erano fantasiosi e inconcludenti, poi arriva Champollion, che impara benissimo il copto, e grazie ad esso, nonché a tutte le altre conoscenze accumulate in anni di studio accanito, riesce a trovare la chiave della decifrazione del geroglifico. Nel momento in cui ci riesce, improvvisamente tutto gli è chiaro, capisce il ‘sistema’ della scrittura geroglifica. Tutto il resto è questione di applicazione”.

“Quindi sì, grazie al copto siamo in grado di pronunciare il geroglifico quando lo leggiamo, anche se imperfettamente: gli antichi egiziani se ci sentissero probabilmente capirebbero ben poco di quel che diciamo!”

f.poole scriveMi legge un testo.

“Alcuni geroglifici sono anche monolitteri, si leggono “come se” fossero segni di un alfabeto, anche se non lo sono. Leggere il geroglifico in fondo è un po’ come risolvere un rebus.
braccio e boccaPer esempio, questa è una bocca, si legge “R”. Questo è un braccio visto di profilo con un po’ di gomito e si legge “A”. Ora se ci metti un trattino sotto così, vuol dire bocca e braccio. Se io voglio dire due braccia scrivo così, disegno due braccia. 2 braccia

Dirai ‘così è facile, so’ buona pure io’ – e ride – però se io non metto il trattino e metto R e poi A e poi ci metto un disco solare vicino, è il nome del Dio “RA”. RA_
Braccio e Bocca, ma in questa parola non c’è né il braccio né la bocca come significato. In questo caso è dal suono che si ricava il significato. Il disco solare in RA non si legge, sta lì per disambiguare, è un ‘determinativo’. Viene aggiunto per indicare che ci si riferisce al Dio RA, dio del sole”.

“Sono stato a lungo lontano dall’Egittologia. Lontano mai del tutto, nel senso che ho sempre un po’ studiato, ho pubblicato qualche articolo.
Mentre lavoravo ancora al Pinacos il mio docente si ammalò e morì. Claudio Barocas, giovane, più giovane di me adesso, aveva 49 anni, ci lasciò ‘orfani’. Per come è organizzata l’università in Italia ritenni che la strada accademica mi fosse preclusa. Dopo la morte di Claudio Barocas ho comunque vinto una borsa di studio all’estero e sono stato due anni a studiare in Francia, poi ho fatto il dottorato, tre anni all’Orientale, ma non vedevo né aperture né sbocchi, sicché ho cominciato a lavorare, ed essendo bilingue (il padre Gordon è americano, la madre, Renata, napoletana, n.d.r.) per tanti anni ho lavorato come traduttore. Ho fatto anche la guida turistica, lavoravo principalmente come guida archeologica, Pompei, Campi Flegrei, Ercolano, ma anche altri siti archeologici. E poi conferenze, che facevo per gruppi di viaggi culturali negli alberghi, soprattutto americani”.

“Suonavo, anche, ma non di mestiere, ero musicista a livello semi professionale. La musica ha sempre fatto parte della mia vita, mio padre ha studiato il violoncello e suona diversi altri strumenti da autodidatta, e così anche i miei due fratelli e mia sorella. Io suono il banjo e la chitarra, il mandolino. Ho suonato a lungo bluegrass, e in seguito dixieland con un gruppo in cui ero l’unico a non farlo di professione, anche se con quello che prendevo mi ripagavo ampiamente gli strumenti. La musica per me è una grossa passione, anche se non posso dedicarle il tempo che vorrei”.

“Avevo insomma un’attività molto variegata, e non pensavo veramente di entrare in Egittologia. Però continuavo a studiare, ogni tanto pubblicavo qualche articolo, avevo ancora un interesse accademico, a volte mi chiedevano una conferenza, una lezione, capitava ogni tanto che si ricordassero di me. All’Orientale per un anno ho insegnato lingua geroglifica, per un master. Per tre anni poi sono stato professore a contratto. Sostituivo una mia amica e collega che aveva la cattedra di Egittologia lì a Napoli. E poco dopo che si è conclusa questa esperienza di professore a contratto, c’è stato questo concorso qua a Torino, e un po’ inaspettatamente l’ho vinto”.

f.poole fotocopie

 

Quindi comunque seguivi sempre, sapevi ad esempio che c’era questo concorso…

“No non lo sapevo, me l’hanno detto, io non seguivo, me l’ha detto questa amica egittologa che ho sostituito all’Orientale. Ho partecipato, eravamo 25 concorrenti, e ho vinto. Cosa che è stata abbastanza dirompente, perché avevo a Napoli una vita ormai ben assestata. Così mi sono trasferito a Torino, e un anno dopo mi hanno raggiunto mia moglie e i bambini, che erano relativamente piccoli”.

“Da cinque anni sono qua al Museo Egizio. E’ impegnativo, e ti cambia la vita, nel senso che l’Egittologia non è più un hobby ora, è un mestiere. E poiché ritengo di avere una formazione assolutamente incompiuta, mi sento studioso e studente al tempo stesso. E’ bello, mi piace studiare, ma è un impegno grande.
Si lavora bene qui, abbiamo tempo anche di fare ricerca, il direttore ci tiene molto, abbiamo uno scavo in Egitto. Io purtroppo non partecipo a questo scavo, e mi manca un po’ questa carica di energia che ti dà il contatto diretto con l’Egitto. Perché se è emozionante il contatto diretto con gli oggetti in museo, il massimo è il contatto diretto con lo scavo archeologico e i reperti proprio in Egitto. Energie emotive che possono nutrire e stimolare. C’è sempre bisogno di queste scosse puramente emotive, anche irrazionali. E’ una componente da non sottovalutare. Poi dopo come scienziati si ha il dovere di analizzare, capire, distinguere. Però non si può fingere di ignorare che esiste questo aspetto emotivo, che è fondamentale”.

Squilla il cellulare, Federico si alza per rispondere, sento una vocetta di bimba. Parlando Federico passa con naturalezza dall’italiano all’inglese. Anche i suoi bambini sono bilingui come lui.

Dieci e tredici anni, condividono qualche interesse per l’Egittologia?

“Mio figlio ama molto i treni e i tram, e il calcio. Mia figlia in questo momento è interessata in particolare al Judo e alla lettura. Entrambi suonano uno strumento, pianoforte lei, violino lui. E nessuno dei due – dice ridendo – ha la benché minima intenzione di seguire le orme del padre”.

Chi lo sa, la passione trova tante strade diverse attraverso cui manifestarsi. E non ho dubbi io che un padre così appassionato e appassionante non possa che essere di stimolo per i propri figli, qualsiasi sia la strada che poi concretamente sceglieranno.
Per me lo è stato, e abbiamo condiviso solo poche ore di un pomeriggio piovoso.

 

 

f.poole finestra