Gaeta

14 Settembre 2016
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Tante volte Gaeta mi è stata casa.
Cominciammo con Formia, lì vicino, avevo 5 anni e le scarpette di gomma per fare il bagno, c’erano le tracine nascoste sotto la sabbia. Mia cugina non aveva le scarpette, fu punta. Avevo 5 anni e mi chiedevo perché bastasse proteggere i piedi. Non pungevano, le tracine, le mani, a immergerle nella sabbia marina?

Poi avevo 8 anni, i miei cercavano una casa da comprare. Si parlava di Ancona, poi la Cassia, a Roma, e poi ancora Formia. La casa di Formia era enorme, aveva una grande terrazza con un ragnetto nella sua tela, e una piscina condominiale. Mio padre diceva che avremmo avuto un cane, in quella casa, un lupo. Mi avrebbe accompagnato a scuola, il cane, e poi sarebbe venuto a riprendermi. Sarebbe andato a comprare il giornale. Mio padre lo avrebbe addestrato ad andare dal giornalaio con i soldi in bocca, e il giornalaio gli avrebbe dato il giornale, e lui lo avrebbe portato a mio padre che era seduto in poltrona. Anche le pantofole avrebbe portato a mio padre in poltrona. Mi piaceva pensare a questo cane intelligentissimo, ma avrei voluto anche un elefante. Non comprammo la casa, così non prendemmo mai il cane intelligentissimo, e neanche l’elefante.

A Gaeta andavamo in vacanza, di tanto in tanto. A giugno, a settembre, a volte anche ottobre.
A volte solo con mia madre, mio padre ci raggiungeva nel week end. La mattina prendevo il sole, facevo bagni, giocavo con la sabbia. Il pomeriggio dormivo a lungo. La sera mia madre ed io andavamo alle cabine telefoniche in paese, con tanti gettoni, per chiamare mio padre a Roma.

Siamo tornati con regolarità, quasi ogni anno. Qualche volta, diretti a San Marco, il paese dei nonni, ci fermavamo a Gaeta un paio di giorni. “Andiamo a mangiare la pizza da Calpurnio!” mi prometteva mio padre prima di partire. E Gaeta, Calpurnio e il mare erano una cosa sola. E anche gli etruschi e i pirati, che Calpurnio nella mia fantasia era mezzo etrusco e mezzo pirata.

Era giugno quando passeggiando sul lungo mare, di sera, cantavo “spunta la luna dal monte”, a bassa voce, e pensavo di essere intonata, e pensavo che mi sarebbe piaciuto cantare, o imparare a suonare uno strumento. Non la chitarra, ci avevo provato, non era andata. Anche il flauto traverso ho provato, molto dopo. Non è andata. Col sax è stato amore vero, invece, era proprio lui il mio strumento. Un amore non del tutto corrisposto, ma insomma.

Ci andammo un giorno di fine ottobre, subito dopo il mio esame di diritto costituzionale. Aria limpida, la spiaggia tutta per noi, il mare di vetro. In acqua guardavo la montagna spaccata e chiacchieravo con mio padre, felice.

Un settembre portammo con noi Tamara, avevamo una minuscola casetta al piano terra, con un giardino piccolino ed un banano. Tamara cercava di prendere i gechi, i gechi dall’alto le facevano marameo. Un giorno la portammo in spiaggia, Tamara, restò atterrita dal vento e dalla sabbia. Al tramonto compravamo il pesce al porto, dai marinai che rientravano. A casa mia madre friggeva triglie e merluzzetti, e calamari. I merluzzetti li sistemava ad anello, ognuno mordeva la propria coda. La ricotta di bufala non l’avevo mai assaggiata prima, mi piacque moltissimo.

Quando ho divorziato i miei hanno preso in affitto una casa in paese per tutto l’anno. Ci andavo spesso, fuori stagione era anche più bella. Passeggiavo sulla spiaggia e ascoltavo Miles Davis e John Coltrane, il jazz lo avevo appena incontrato e m’aveva subito stregato.
Tornando a casa passavo davanti ad un negozio di arredamento, mi fermavo davanti alla vetrina, e immaginavo di vivere in una casa con una di quelle cucine moderne. Mi piacevano il bancone e gli sgabelli alti, le tovagliette all’americana. Cominciavo a rinascere, piano piano, mi concedevo di immaginarmi felice, in una casa nuova. Avevo paura ancora, un po’, ma sempre più spesso mi lasciavo invadere da una irragionevole fiducia.
La prima cosa che ho scelto, quando ho ristrutturato la mia nuova casa, è stata una cucina, moderna, con un tavolo alto e sgabelli e tovagliette all’americana.

Se penso Gaeta tutte queste vite mi vengono incontro, tutte queste me di ogni età, tutte legate dalla stesso caparbio filo di felicità. La me che sarò, anziana, passeggia, è inverno. Ha una gonna lunga, uno scialle leggero, e i piedi nudi nell’acqua. Mi sorride.