Amori piccoli

11 Luglio 2019

 

Ho avuto tanti amori da bambina. Il maestro di nuoto di mio fratello, d’estate, nel camping da qualche parte sulla costa calabra. Era alto e biondo, abbronzato, e io non avevo ancora 6 anni. Lo contemplavo con sguardo adorante mentre teneva il suo corso sulla spiaggia. Devo aver manifestato ai miei genitori l’improvviso desiderio di prendere lezioni di nuoto, ma d’ufficio mi è stato assegnato un altro maestro, magro, scuro di capelli e occhialuto. Mi ha fatto soffiare l’aria dalle narici dentro un secchiello colmo d’acqua, per abituarmi, diceva. Ho perso rapidamente interesse per il nuoto.

C’è stato poi quel bambino biondo e riccioluto, al villaggio Pifano. Lui alloggiava nel vicino camping, noi in un appartamento d’affitto sulla spiaggia, umidissimo. Volevo piacergli, gli ronzavo intorno con discrezione. Mi chiese un bacio, rifiutai sdegnata. Disse che l’altra bambina, la rossa, mia rivale, benchè più piccola di me non aveva fatto tante storie, lo aveva baciato sulle labbra. “Puttana”, sibilai.

Poi sono cominciate le scuole elementari. Nel banco dietro al mio erano seduti due ragazzini, biondi. Mi piacevano entrambi. Alessandro aveva i capelli lisci, leggermente lunghi, Gianmaria li aveva ricci, anche lui non corti, s’era negli anni ’70, e uno dei miei libri, che amavo, si intitolava “caro maestro capellone”. La maestra Michelina ci aveva dato un disegno da fare, ed io mi voltavo di continuo per vedere i loro fogli, per chiedere consiglio su come disegnare piccole pecore, per guardare i loro occhi azzurri. Alessandro era il mio preferito, e a rivederlo nella vecchia foto di classe devo dire che in effetti era davvero molto bello, con quei suoi occhi chiarissimi leggermente a forma di mandorla, pareva svedese. Ma dopo le vacanze estive Alessandro non è tornato in classe con noi, e mi è rimasto Gianmaria, che è stato il mio fidanzato ufficiale fino alla quarta elementare, quando a trasferirmi sono stata io. Ci scrivevamo teneri bigliettini, Gianmaria ed io. Il primo me lo aveva scritto lui, ti vuoi fidanzare con me? O forse ero stata io a scriverlo a lui, non ricordo più, s’era sempre negli anni ’70, tutte le regole si capovolgevano. Verificato che l’amore era reciproco, gli sono saltata addosso gioiosa, e siamo caduti a terra ridendo. Non gli sono stata molto fedele. A scuola sì, era il nostro territorio quello, la casa del nostro amore. Altrove no, si ripartiva da zero. Così al catechismo.

Ebbene sì, a otto anni ho frequentato il catechismo. Ci andavo con mio cugino Angelo una volta a settimana, mi pare. Ci accompagnava nonna Tommasina, lei convintamente cattolica. Era stata una fede violenta, la sua, quasi rabbiosa nell’età matura, la reazione alla condizione subalterna che le era toccata quale donna, moglie, madre. Quella fede aveva preso un andamento più quieto nella vecchiaia, fatto di silenziose preghiere, chiesa, rosari, crocifissi, sonnolenti programmi radiofonici che diffondevano dalle frequenze di Radio Maria. Con i rosari mi piaceva giocare, quei grani lucenti come caramelle, li portavo alle labbra per saggiarne il colore rubino, li lasciavo cadere da una mano all’altra, amavo il suono di pioggia che ne scaturiva. Nonna mi lasciava fare. Non c’era mai nulla che fosse vietato, a casa di nonna Tommasina. Con mio cugino tiravamo giù i materassi dai letti per saltare sulle reti. I materassi in terra poi diventavano barche in un mare, il pavimento, popolato di temibili squali. Saltando da una sedia all’altra, gli scogli, approdavamo sull’isola deserta, il tavolo del salotto, e poi da lì di nuovo pericolosamente sulle barche materasso. Potevamo scrivere sui muri della casa, coi pennarelli, ovunque erano disegni e grafie infantili, Angelo ama Manù, Armando ama Laura, Cristina ama Gianmaria, e rossi cuori trafitti. Giocavamo a fare i gattini, la nonna prendeva dei piccoli piatti, li appoggiava sul pavimento e versava il latte. Mio cugino ed io, carponi, leccavamo diligenti miagolando. Ci apparecchiava su una sedia farina ed acqua, e formavamo piccole polpette di pasta cruda che la gatta Mimmi mangiava di gusto. Raccontava fiabe, la nonna, fiabe bellissime. Ancora e ancora. Quella dei gattini che governavano la casetta in fondo al fiume era la mia preferita, coda d’asino e stella in fronte. Si soffermava a lungo sui particolari della vita dei gattini nella casa, perché sapeva che era la parte che più mi rapiva. Ci raccontava di Gesù, anche, ma il tentativo di affiliarci alla sua religione era mite, mai impositivo, prendeva la forma della fiaba. Sicchè ho frequentato il catechismo, a otto anni, ho fatto la prima comunione, e infine dopo pochi tentativi di noiose messe e pasticciate confessioni sono gradatamente diventata atea, senza interferenze. La fede per mia nonna era diventato un fatto privato, una sommesso dialogo fra lei e Gesù.

Al catechismo dunque avevo una simpatia, non ricambiata, per un Ottaviano. Era un bambino biondo, manco a dirlo, piccolino di statura, incredibilmente timido e silenzioso. Lo guardavo di là dal lungo tavolo di legno da refettorio nella stanza dove facevamo lezione, senza osare rivolgergli la parola.

In paese, dove ci trasferivamo per gran parte del periodo estivo, ho amato Chicco. Lui era bruno, finalmente!, occhi scuri e luminosi. Mi cantava la canzone di David Crockett, mentre mi dondolavo sull’amaca, e mi parlava della sua sorellina, Maria Enrica, ma io capivo Coppa Rica. Ci sussurravamo piccoli segreti nell’orecchio, poi ci prendevamo per mano, e al cospetto degli altri compagni di giochi, le sue cugine, fingevamo di trasmetterci quei segreti per telepatia. Le cugine un po’ protestavano l’imbroglio, un po’ credevano davvero. Un po’, fra le nostre mani, con i segreti sussurrati ne passavano altri, mai detti.

A San Marco, il paese, ho avuto anche un amore per un ragazzo più grande. Probabile che avesse anche cinque anni più di me, un’enormità. Mi trattava da sorellina, MassimodiBenevento, chè era di Benevento, appunto. Biondo eh. Mi abbracciava, seduti sul dondolo del bar Serio ad ascoltare la musica del Juke Box. Oddio! Il Juke Box, sembra la preistoria. Cinquanta lire per un brano, dalla struttura trasparente si vedeva il braccio meccanico prelevare il disco, poggiarlo sul giradischi, e la puntina abbassarsi lentamente sulla traccia. Ipnotico. Le canzoni che ascoltavamo erano quelle, le stesse per tutta la stagione, il triangolo no, non l’avevo considerato, quella carezza della sera, sciogli le trecce cavalli, corrono, il bimbo nascerà. MassimodiBenevento però amava un’Arianna, e mi consegnava bigliettini d’amore da farle pervenire di nascosto dal padre geloso. Io eseguivo ligia e adorante.

Anche a Roma, nel palazzo dove vivevamo, avevo un amore platonico dello stesso tipo, un ragazzo più grande di me. Alessandro, biondo anche lui. Nel cortile si giocava sempre tutti insieme, i grandi con i più piccoli. Lui con i piccoli era sempre tenero, gentile. Aveva un sorriso morbido, avrei voluto averlo per fratello. Avrei dato in cambio il mio, che sempre mi faceva dispetti per il gusto di farmi gridare. Gridavo un sacco, da bambina, con mio fratello. Non avevo altre reazioni se non quello strillo acuto che faceva accorrere mia madre. Una volta sola, d’impulso, in risposta ad una violenza tutta psichica, ho avuto una reazione più fisica, materiale. E’ andata così: da Gisella, che aveva il tabacchi, quei tabacchi di una volta dove si trovava di tutto, dalle sigarette alle caramelle, i trucchi, i giochini, mio fratello mi aveva indotta a scegliere fra quelle disponibili una macchinina bianca e poco affusolata, non troppo bella. Lui per sé ne aveva scelta una rossa, bellissima. Mentre poi, seduti sul gradino di marmo del portone accanto al nostro, giocavamo con queste macchinine, lui aveva cominciato a deridermi per la mia, brutta e tozza. Prima mi aveva persuaso a comprarla, ora rideva di me. Mi sentivo dolorosamente tradita nella fiducia che avevo riposto in lui, e mi partì lo schiaffo, sul suo viso. Incredulità sua, incredulità anche mia, siamo rimasti così, sospesi, senza fiato, per qualche secondo. Poi mi ha picchiata. Alessandro no, non mi avrebbe mai picchiata, lui. Abitava al quarto piano, l’attico, sopra al nostro appartamento. L’ho rivisto una volta, ero adolescente, ci eravamo già trasferiti in un altro quartiere noi, ed eravamo in visita alla nonna che ancora viveva lì a Torrevecchia. Aveva coperto il muro della sua stanza con un enorme poster a parete raffigurante un bosco attraversato da lame di luce. Un paesaggio fatato. Pensavo, fortunata la sua ragazza, se ne ha una. Come sarebbe bello baciarsi in questo bosco, pensavo. Poi l’ho visto di nuovo al matrimonio di mia cugina, avevo 22 anni io, lui forse 25 o 26, faceva foto con una reflex, e aveva sempre quel suo modo morbido ed elegante di muoversi, e di sorridere. Ho chiesto a volte sue notizie a mia cugina, che era amica della sorella, e a mia zia Adele. Mi pare di ricordare che sia stato per un po’ iscritto a ingeneria, che era quello che il padre si aspettava da lui, la laurea, e che era quello che tutti si aspettavano da lui, perché era molto intelligente, e poi era ebreo, e quindi anche per questo era molto intelligente, e tutte quelle cose che la società ama cucire addosso alle persone per impedir loro ogni movimento. Mi sembra che poi abbia mollato tutto, ha fatto il maestro d’asilo, per un po’. Poi non so. Me lo immagino, con i bambini, bello e gentile come era sempre stato con noi.

Nel nuovo quartiere, la Balduina, dove ci eravamo trasferiti, ho frequentato la quinta elementare in una scuola vecchia, un edificio grigio, brutto, triste, tutto diverso dalla scuola rosa, il prefabbricato che avevo frequentato a Torrevecchia, in via Taggia. I nuovi compagni erano poco vivaci, quasi immobili, ovunque regnava una ricerca solo formale della disciplina, tutto era rigido e pesante. Ma anche lì ho trovato un amore, biondo anche lui. Massimo. Ci scambiavamo tenerezze seduti sui grandi cuscini della palestra, durante l’ora di ginnastica. E qualche bacio, nascosti sotto una siepe, durante la gita di fine anno.

Poi c’è stato Pierpaolo, a Santa Cesarea, durante l’estate dei miei tredici anni. Anche lui, come Chicco, avevo dovuto conquistarlo sottraendolo alle sue cugine, che ne erano innamorate. Ballavamo lenti, abbracciati. Mi insegnava brevi melodie sulla chitarra. Il primo bacio che ci siamo scambiati è stato sotto casa mia, davanti alla porta finestra che apriva sulla stanza dove dormivano i miei genitori. Mi aveva accompagnata a casa, di sera, lui abitava nella casa accanto. Avevo paura che i miei fossero svegli, che mi vedessero fra le lame delle persiane. Ero emozionata, e felice. A lui ho dato anche il mio primo bacio a labbra aperte, sulla terrazza nella villa delle cugine. Eravamo soli, il nero della notte stemperato dal lieve canto dei grilli. Tutti gli altri erano giù. A mangiare la frisa coi pomodori.